DIAGNOSI E TERAPIE - «Purtroppo l'artrite reumatoide è sottovalutata e poco conosciuta, ancora oggi e nonostante sia una malattia che riguarda moltissime persone – afferma Carlomaurizio Montecucco, presidente della Società Italiana di Reumatologia - Anche per questo le diagnosi arrivano in ritardo, pregiudicando la vita di molti. L'unica via per ridurre le conseguenze dell'artrite reumatoide infatti è diagnosticarla presto e intervenire subito, magari entro tre-quattro mesi dall'esordio dei sintomi (i più classici: dolore alle articolazioni di notte, rigidità al mattino, tumefazioni articolari)». Nella realtà le cose non vanno così: in media la diagnosi ci mette poco meno di un anno ad arrivare; è un po' più veloce se è il medico di famiglia ad avere il sospetto di artrite e indirizzare il paziente dal reumatologo (10 mesi in media); occorre il doppio, ben 24 mesi, se il malato inizia il suo giro di pareri medici da specialisti diversi dal reumatologo. «Fare diagnosi e terapie precoci significa ridurre la disabilità e regalare autonomia ai pazienti - interviene Gianfranco Ferraccioli, direttore del Dipartimento di Reumatoogia alla Cattolica di Roma -. Per di più, se interveniamo presto in alcuni casi possiamo addirittura sospendere le terapie con i biologici e tornare ai farmaci convenzionali pur mantenendo la remissione».
NUOVE SPERANZE – Già, i biologici. Funzionano, ce ne sono di nuovi che riducono l'infiammazione e tutti i guai correlati con grande efficacia: è il caso di tocilizumab, l'ultimo arrivato in Italia, che ha un bersaglio diverso rispetto agli anti-TNF. L'obiettivo in questo caso è il recettore per interleuchina-6, un mediatore dell'infiammazione: spegnerla significa «togliere benzina» all'infiammazione e migliorare parecchio le condizioni dei pazienti. È arrivato in Italia tre mesi fa, ma a oggi solo 4 Regioni (Lombardia, Marche, Campania e Abruzzo) ce l'hanno davvero nei prontuari. Altrove è tutto ancora impantanato nella burocrazia. E non è l'unico caso di disparità di assistenza sul territorio: i reumatologi denunciano ad esempio la scarsità di specialisti, che in alcune Regioni allunga i tempi delle liste d'attesa dilatando ulteriormente i tempi della diagnosi. O l'accesso ai centri di riferimento, che più spesso prescrivono i biologici: al sud, ad esempio, la maggioranza dei malati è in cura da reumatologi privati, che ricorrono a questi farmaci assai più raramente. «Uno dei problemi maggiori è l'organizzazione dei servizi e delle strutture. Dobbiamo riuscire a garantire su tutto il territorio italiano omogeneità di accesso alla diagnosi e alla cura» dice Montecucco. La sensazione è che la sfida sia ancora lungi dall'essere vinta, purtroppo.
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