MILANO - Avete il diabete? Forse non è solo colpa di una predisposizione familiare o dell'ormai epidemica tendenza a metter su chili di troppo. Può darsi che una parte della responsabilità sia da attribuire a una vostra esposizione in passato a pesticidi, a certe sostanze chimiche o perfino all'aver esagerato con un sottotipo di vitamina E. Lo rivela l'Environment-Wide Association Study dell'università di Stanford, negli Stati Uniti, accessibile liberamente online sul sito della rivista PloS ONE.
STUDIO EPIDEMIOLOGICO – I ricercatori di Stanford sono partiti dalla nota considerazione che il diabete, di tipo uno ma anche di tipo due, ha indubbi fattori di rischio genetici (che spiegano la familiarità spiccata della malattia). Ci sono però anche componenti ambientali da non sottovalutare: prima fra tutte l'obesità, che è in continuo aumento ed è legata a doppio filo con la comparsa del diabete. Il problema degli epidemiologi è riuscire a trovare il bandolo della matassa e indicare con certezza quali fattori di rischio siano veramente connessi alla malattia, estrapolando dalle migliaia di elementi che fanno parte del tessuto della nostra vita quotidiana quelli davvero colpevoli. Per riuscirci, Atul Butte del Centro di Bioinformatica Pediatrica di Stanford ha provato un approccio completamente nuovo: in sostanza, ha considerato le variabili ambientali come fossero geni e le ha studiate utilizzando metodi statistici presi in prestito dall'analisi del DNA. Questo gli ha permesso di passare al vaglio ben 266 parametri nel più grosso studio di valutazione dell'impatto dell'ambiente sul diabete mai condotto finora, che si è servito dei dati di migliaia di partecipanti agli studi NHANES (il National Health and Nutrition Examination Survey statunitense, «una vera miniera d'oro di dati», per dirla con Butte.) Dalla complessa analisi, fatta tenendo conto anche della possibile influenza di elementi come l'età, il sesso e il livello socioeconomico, sono emerse correlazioni significative fra alcuni fattori ambientali e la probabilità di ammalarsi di diabete.
PESTICIDI E VITAMINA E – In chi ad esempio è stato più esposto a certi pesticidi, misurati attraverso i livelli nel sangue di un loro derivato (l'epossido di eptacloro), il rischio di diabete è più elevato del 70 per cento; la probabilità è più che doppia in chi è venuto a contatto spesso con bifenili policlorurati (PCB) e sale (più 50 per cento) anche in chi ha alti livelli plasmatici di una forma di vitamina E, il gamma-tocoferolo che si trova in frutta, verdura, noci e latte. «L'associazione non implica che queste sostanze siano causa diretta di diabete – specifica Butte – D'altro canto, abbiamo trovato che il beta-carotene è protettivo nei confronti del diabete». Insomma questo non è un invito a guardare con sospetto la vitamina E, perché c'è ancora tanta strada da fare per capire come questi fattori interagiscano fra loro per poi portare a un maggior pericolo di glicemia alta. Di certo l'ambiente conta, com'è stato sottolineato anche dai medici italiani all'ultimo congresso della Società Italiana di Diabetologia: per il diabete di tipo due l'imputato numero uno resta lo stile di vita, ma anche per il diabete di tipo uno sembrano contare non soltanto i geni.
DATI ITALIANI – «Il diabete di tipo uno è in crescita del 3 per cento ogni anno: ormai in Italia si contano oltre 300 mila bambini e ragazzi malati, ogni due giorni facciamo una nuova diagnosi su bambini con meno di 14 anni – spiega Paolo Cavallo Perin, presidente SID -. Un nuovo paziente su dieci è figlio di immigrati, a conferma del fatto che non c'è soltanto una componente genetica della malattia: in chi è predisposto, probabilmente, il cambiamento delle abitudini alimentari rispetto al Paese d'origine “scatena” il diabete». Raffaella Bruzzetti, docente di endocrinologia dell'Università La Sapienza di Roma, aggiunge: «L'aumento dei casi di diabete di tipo uno è stato esponenziale negli ultimi 20 anni, e di certo in nostri geni non sono cambiati in un arco di tempo tanto breve. La ragione va cercata altrove, come hanno tentato di fare anche i ricercatori statunitensi: devono esistere elementi ambientali più frequenti oggi rispetto al passato che sono almeno in parte responsabili dell'epidemia attuale di diabete». Gli studi più recenti hanno sgombrato il campo dai sospetti su due fra i fattori di rischio su cui si erano puntati gli occhi dei ricercatori, gli enterovirus (le infezioni sono in calo) e l'introduzione precoce del latte vaccino nei neonati (l'allattamento al seno è sempre più diffuso). Restano, oltre a quelle appena elaborate dagli americani, altre ipotesi al vaglio degli esperti: «Una è l'elevato peso alla nascita: i neonati che superano i 4 chili sono più a rischio – dice Bruzzetti –. Altro fattore che sembra poter essere determinante è l'età della madre al momento del parto che, anche nel nostro Paese, è in continuo aumento: sappiamo oggi infatti che per ogni incremento di 5 anni dell'età della neomamma cresce del 5 per cento il rischio di diabete del neonato».
OBESITÀ - Nessun dubbio, invece, sui mali provocati dal grasso di troppo: l'obesità è l'elemento non genetico che più conta nello sviluppo di entrambe le forme di diabete. «L'obesità aumenta la resistenza periferica dei tessuti (muscoli, fegato) all’azione dell’insulina – spiega Bruzzetti –. Ciò facilita la comparsa del diabete di tipo due ma anche di tipo uno, perché si pensa che il meccanismo possa portare a uno “sforzo” maggiore delle cellule che producono insulina, che potrebbero di conseguenza esprimere proteine verso cui poi si scatena la reazione immunitaria tipica del diabete di tipo uno. A sostegno di questa ipotesi c'è il sempre maggiore numero di bambini e adolescenti con diabete tipo uno in sovrappeso alla diagnosi», conclude Bruzzetti.
Elena Meli
11 giugno 2010 http://www.corriere.it/salute/
11 giugno 2010 http://www.corriere.it/salute/
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