ESERCIZI – I risultati di Vincenzo Di Lazzaro e dei suoi collaboratori dell'Istituto di Neurologia della Cattolica sono usciti sulla rivista Clinical Rehabilitation e accendono una speranza per i 160mila italiani che ogni anno vanno incontro a un «blackout» di sangue al cervello. Di Lazzaro ha sottoposto a riabilitazione 11 pazienti che avevano avuto un ictus da oltre un anno (in media da tre anni); prima di cominciare ne ha valutata la capacità motoria residua, quella che finora si credeva impossibile da migliorare. Solo entro sei mesi, al massimo un anno, infatti, si supponeva possibile un recupero della mobilità. La riabilitazione messa in atto dai neurologi romani ha previsto le cosiddette tecniche di «shaping»: in pratica, si dà un obiettivo riabilitativo che il paziente raggiunge attraverso esercizi man mano più complicati e grazie al continuo sostegno e incoraggiamento positivo del terapista. A questi si sono associati esercizi di rinforzo muscolare. «Il tutto per un'ora e mezza al giorno, 5 giorni alla settimana, per 2 settimane», precisa Di Lazzaro.
RISULTATI – Non proprio una passeggiata, insomma. «Per ciascuno, dopo la fase iniziale di valutazione, sono stati stabiliti obiettivi concreti, decisi in base alle reali possibilità del paziente – racconta il neurologo –. Alla fine in tutti abbiamo visto un miglioramento della funzionalità e della forza dell'arto trattato (un braccio o una mano), con evidenti vantaggi nella vita quotidiana. E a tre mesi di distanza dalla fine della terapia il miglioramento, che abbiamo stimato attorno al 25 per cento, rimaneva». L'obiettivo è stato anche metter a punto un trattamento che, pur tenendo conto delle abilità residue di ognuno e degli obiettivi realistici che ogni malato può porsi, fosse il più possibile standardizzato: gli esercizi e le attività proposte possono essere adattate a pazienti in condizioni diverse, ma restano abbastanza simili. Prossimo obiettivo, associare a questo tipo di riabilitazione tecniche elettrofisiologiche di stimolazione del cervello: andando a «pungolare» alcune aree cerebrali si spera di aumentarne la plasticità, «insegnando» ai pazienti a muovere di nuovo gli arti utilizzando strategie e connessioni cerebrali alternative a quelle andate in fumo per colpa dell'ictus.
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